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NELLA STORIA

Mandela, Lomu, Invictus, l'avvelenamento: Sudafrica 1995, la finale pi¨´ leggendaria

Roberto Parretta @robertoparretta

Gli Springboks che battono gli All Blacks ai supplementari, la coppa consegnata dal Presidente al capitano Pienaar e sullo sfondo una cena avvelenata: quando la storia dei Mondiali incroci¨° quella di un paese che usciva dall’apartheid

Tempo di lettura: 9 minuti

Ci sono stati eventi che, fissati in un attimo da fotografie immortali, hanno segnato la storia dello sport: il pugno nero al cielo di Tommie Smith e John Carlos all’Olimpiade di Citt¨¤ del Messico 1968, Fausto Coppi, Gino Bartali e la borraccia sul Galibier nel 1952, il pugno fantasma di Muhammad Al¨¬ su Sonny Liston nel 1965, ad esempio. Ma c’¨¨ una foto sopra a tutte che senza tema di smentita travalica i confini dello sport: Nelson Mandela che consegna nelle mani di Francois Pienaar la Coppa del Mondo di rugby il 24 giugno 1995. Quella finale di Johannesburg tra gli Springboks padroni di casa e gli All Blacks resta ancora oggi la pi¨´ leggendaria delle 9 edizioni dei Mondiali sin qui giocati. Prima della decima, che sabato a Saint-Denis le vedr¨¤ in campo di nuovo per una rivincita che i neozelandesi attendono da 28 anni.

Invictus

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In realt¨¤, le due squadre si sono ritrovate di fronte ai Mondiali altre 4 volte, con una vittoria sudafricana (22-18 a Cardiff nella finale per il terzo posto del 1999) e 3 neozelandesi: 29-9 nei quarti in Australia nel 2003, 20-10 a Twickenham nella semifinale del 2015 e 23-13 in Giappone nel 2019 nella fase a gironi. Ma ovviamente nessuno di questi precedenti pu¨° pareggiare il valore della sfida che chiuder¨¤ l’edizione di Francia 2023. Quella del 1995 ¨¨ una finale leggendaria per una serie infinita di motivi, magari a cominciare da come ¨¨ stata raccontata nello straordinario film Invictus (2009) di Clint Eastwood, con Morgan Freeman nel ruolo di Mandela e Matt Damon in quello di Pienaar. Esclusa dalle competizioni ufficiali per via del regime di apartheid, la nazionale di rugby del Sudafrica fece il suo debutto in quella edizione, perch¨¦, per celebrare la ritrovata democrazia e l’elezione di Nelson Mandela a presidente nel 1994, la federazione mondiale assegn¨° alla nazione arcobaleno l’organizzazione della terza edizione della rassegna iridata. Mandela aveva da subito avviato un percorso di riconciliazione nel paese, ovviamente molto avversato dalla popolazione nera: il Presidente per¨° non si ferm¨° di fronte alle critiche, anzi, individu¨° nei Mondiali di rugby una ghiotta occasione da sfruttare. Con il suo “One Team, One Nation”, con la collaborazione attiva del capitano Pienaar, promosse un tour della squadra degli Springboks nelle township per portare il rugby proprio dove questo sport era pi¨´ avversato, proprio perch¨¦ cos¨¬ amato dai bianchi. E il suo aperto e incondizionato sostegno alla squadra, “sono i nostri ragazzi, i nostri figli, i nostri eroi”, dove tra l’altro c’era un solo giocatore nero, l’ala Chester Williams, fu decisivo nella sua azione politica volta a pacificare un paese sempre sull’orlo della guerra civile.

Mandela: "Sono i nostri ragazzi"

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Quando Mandela emerse dal tunnel degli spogliatoi per il tradizionale saluto pre gara, indossando la maglia verde degli Springboks numero 6 (quella del capitano Pienaar) e un berretto con l’antilope, per i neri simbolo di oppressione e che per questo il nuovo corso politico avrebbe voluto sostituire con il fiore della protea (come fatto per tutte le altre rapresentative nazionali), trovando per¨° la ferma opposizione proprio del Presidente, il pubblico bianco e afrikaaner inizi¨° a scandire il suo nome: “Nelson, Nelson, Nelson!”. Mandela aveva in quel momento vinto la sua scommessa: il rugby aveva contribuito a riconciliare il paese. E poco dopo, davanti ai 63.000 dell’Ellis Park, per la quasi totalit¨¤ bianchi e afrikaaner, e con le vecchie bandiere nazionali simbolo dell’apartheid che avevano sventolato ancora negli stadi nelle prime partite ormai totalmente scomparse, tutti i giocatori sudafricani schierati in campo cantarono il nuovo inno nazionale, che miscelava le parole di “Die Stem” (l’inno dell’era dell’apartheid, ovviamente controverso) e “Nkosi Sikelel’ iAfrika”, un vecchio canto di liberazione panafricano del movimento anti-apartheid. La vittoria fece il resto. “L’intero Sudafrica ¨¨ esploso in festa, i neri sono felici quanto i bianchi”, ha scritto Martin Meredith nella sua biografia, ‘Mandela’. “Mai prima d’ora i neri avevano avuto motivo di mostrare tanto orgoglio per gli sforzi dei loro connazionali bianchi. Fu un momento di fusione nazionale che era stato ispirato da Mandela”. Allo spettacolo sportivo in campo e alla grandissima emozione di una finale, si aggiunse quello simbolico, per il quale Mandela aveva lavorato nei mesi precedenti. “Quando risuon¨° il fischio finale, questo paese cambi¨° per sempre”, avrebbe detto anni dopo, alla morte di Mandela, il capitano Pienaar. Sebbene il vittorioso Mondiale di rugby non fu certo in grado di risolvere tutte le sofferenze patite dai neri sudafricani costretti a vivere negli strati pi¨´ bassi della societ¨¤ post-apartheid, l’dea di Mandela di usare il rugby come leva politica ebbe successo, perch¨¦ quanto meno permise di curare le ferite della nazione. Ovviamente non sono tutte rose e fiori. Per molti sudafricani neri, gli Springboks continuano a rappresentare il brutale regime di apartheid: se nel 1995 c’era solo Chester Williams, nella vittoriosa campagna di Giappone 2019 erano solo 6, anche se con il primo capitano nero della storia (e anche attuale), Siya Kolisi. “Proprio come il gesto di Mandela nel 1995 fu stato salutato come una metafora della riconciliazione razziale nella nazione, cos¨¬ l’incapacit¨¤ del rugby di trasformarsi ¨¨ vista come una metafora della disillusione tra i neri che hanno ottenuto la libert¨¤ politica, ma non economica”, scrivono tuttora gli osservatori sudafricani.

Jonah Lomu ingabbiato

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Tra Mandela e la realizzazione del suo progetto, per¨°, c’erano due ostacoli. Uno da 196 centimetri per 120 chili in grado di correre i 100 metri in 11”2 e abbattere qualsiasi tipo di avversario: Jonah Lomu. E un altro rappresentato da una nazionale degli Springboks che partiva tutt’altro che favorita. Ma che, strada facendo, riusc¨¬ a farsi largo piegando avversari sulla carta pi¨´ forti, come l’Australia nella fase a gironi, e regolando quelli pi¨´ deboli come Romania e Canada, senza mai brillare, ma dando l’idea di una squadra molto solida e fisica, difficile da mettere in difficolt¨¤. Poi arrivarono le 4 mete di Chester nel quarto contro Western Samoa (42-14) e il diluvio torrenziale prima della semifinale con la Francia: con l’arbitro pronto ad annullare il match e quindi a spedire in finale i bleus grazie alla migliore disciplina nei precedenti match, un gruppo di donne armate di ramazze riusc¨¬ a rendere il campo appena praticabile, permettendo poi al Sudafrica di vincere 19-15. Dall’altro lato del tabellone era stata travolgente la marcia degli All Blacks, che avevano distrutto Irlanda, Galles, Giappone e Scozia, per poi devastare anche l’Inghilterra con 4 mete di Lomu.

Che non era il solo fuoriclasse in squadra, basti pensare a Zinzan Brook, a Sean Fitzpatrick, alla storica coppia di centri Walter Little-Frank Bounce, all’apertura Andrew Merthens. La finale fu una battaglia prevalentemente fisica, di gioco se ne vide pochissimo: i padroni di casa decisero di puntare tutto sulla marcatura di Lomu, perch¨¦, ingabbiato lui, si eliminer¨¤ il maggiore pericolo. Ed ebbero ragione. A muovere lo score furono cos¨¬ i calci di Joel Stransky e Merthens, che allo scadere dei tempi regolamentari manc¨° di poco il drop della possibile vittoria. Drop che invece riusc¨¬ poi nel secondo supplementare a Stransky, per il 15-12 sul quale si chiuse la finale. “Oggi non c’erano solo questi 60.000 sugli spalti, dietro di noi sentivamo la spinta di 43 milioni di sudafricani”, disse Pienaar alla fine del match.

Il lato oscuro della cena avvelenata. Fu la cameriera Suzie?

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Per come tutte le grandi storie che si rispettino, dietro alla leggendaria finale del 1995 c’¨¨ anche un lato oscuro. Due giorni prima della finale, due terzi degli All Blacks accusarono fortissimi dolori: erano stati avvelenati. Secondo rivelazioni e ricostruzioni che si sono succedute negli anni, testimoni presenti nel ritiro neozelandese ne sono certi. Gli All Blacks erano largamente favoriti per la vittoria finale e si dice che i centri di scommesse clandestine potessero avere visto nella vittoria del Sudafrica una ghiotta occasione di guadagno. Fatto sta che all’interno del management neozelandese si avvertiva una preoccupazione eccessiva, quasi sfociata nella paranoia, tanto che dopo la vittoria nella semifinale di Citt¨¤ del Capo, si decise che al ritorno all’albergo di Johannesburg la squadra avrebbe mangiato separatamente rispetto al resto degli ospiti. Una decisione poi rivelatasi controproducente, perch¨¦ avrebbe reso pi¨´ facile un eventuale tentativo di contaminazione di cibi o bevande. “Accadde alla cena del gioved¨¬, due giorni prima della finale: non fu nel cibo, ma molto pi¨´ probabilmente nel caff¨¨, nel the e nelle altre bevande”. A raccontarlo fu poi Rory Stern, un ex alto ufficiale della polizia sudafricana e capo delle guardie del corpo di Mandela. “Gli All Blacks assunsero un detective privato per indagare, ma non fu in grado di provare nulla. Ma io so quello che ho visto: quasi una intera squadra rotolarsi a terra con dolori lancinanti”. E proprio Steyn a indicare il mondo delle scommesse come mandante, scagionando governo rugbistico e nazionale. Nel 2016 il giornalista Wynne Gray del New Zeland Herald intervist¨° giocatori, allenatori e management delle due squadre per provare a chiarire il mistero. E il c.t. Laurie Mains ¨¨ sicuro che la colpevole fu una cameriera, conosciuta come “Suzie”. E, rispetto a Steyn, sostiene che l’investigatore privato sudafricano arriv¨° a una conclusione ben diversa: “Me lo aveva indicato mia moglie. Riusc¨¬ a scoprire che una donna nera era stata assunta dall’hotel due giorni prima del fatto e il venerd¨¬ era scomparsa nel nulla”. Anche Mains sostiene di avere ricevuto informazioni secondo le quali dietro all’avvelenamento ci fossero le scommesse clandestine. E alla viglia del match, il management degli All Blacks valut¨° anche l’ipotesi di non giocare, visto lo stato della squadra, ma poi si decise di non fare parola dell’accaduto. “Fui io a dire - rivela ancora Mains - che dovevamo stare zitti e giocare, non potevo far sapere ai sudafricani che la squadra era fisicamente a pezzi”. Il medico della squadra Mike Bowen conferm¨°: “Non ho le prove, ma non fu un incidente”. Anche l’arbitro Ed Morrison raccont¨° di avere notato strani fatti tra gli All Blacks: come l’eccessiva sudorazione di Steve McDowall dopo pochissime mischie o l’ala Jeff Wilson sentirsi malore in campo: “Il loro capitano Fitzpatrick non ha mai fatto menzione della loro situazione nei giorni precedenti e scoprii dell’avvelenamento solo parlandone dopo la partita con Mains”. Ricostruzioni e testimonianze, quindi, sarebbero concordi. Ma anche nello scagionare il rugby sudafricano. Quel che resta, di certo, ¨¨ la finale di Coppa del Mondo pi¨´ leggendaria della storia.

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